#7 - 2015.10 - Lasciamoci sorprendere!





LASCIAMOCI SORPRENDERE

Si prospettava essere un sabato come tanti altri, di normale lavoro d’ufficio nel Public Relation Department, tra una telefonata e l’altra, tra una mail e l’altra, tra una chiacchiera con un collega ed un altro…
Finché alle 9.30 circa Samuel Maina del programma dei bambini disabili entra in ufficio chiedendo ad Ester (la mia capo-ufficio)  la possibilità di essere accompagnato da una di noi del PR in un villaggio poco distante per scattare delle foto alla casa di una famiglia di una beneficiaria del St.Martin.
Ester mi guarda con un’espressione interrogativa quasi a chiedermi senza esplicite parole la disponibilità ad andare. Poiché i due si scambiano qualche parola in kikuiu, non capisco bene di cosa si tratta e mi accingo solo a chiedere per che ora è previsto il rientro. Dopo essere stata assicurata che alle 13.00 saremmo rientrati, do la mia massima disponibilità a fare da ‘paparazza’.
Ma ecco la prima di una lunga lista di sorprese inaspettate per quella che doveva essere una tranquilla giornata di routine.
Maina torna nel mio ufficio dopo 5 minuti con una pesante tuta nera da indossare con tanto di casco perché, mi spiega, “il villaggio e’ raggiungibile solo in motocicletta”.
Devo specificare il fatto che non sono mai salita su una moto nemmeno in Italia…figuriamoci qui, col traffico che c’è per le strade mai mi sarei sognata di montare su un piki-piki o un boda-boda (come chiamano qui le moto-taxi). Innanzitutto i conducenti sono dei pazzi, non seguono regole stradali, trasportano di tutto (dai divani alla legna, dalle gabbie con galline o caprette a lunghissimi fili di ferro, da sacchi di patate a taniche di latte), e se si tratta di trasporto di persone, oltre al rider possono starci addirittura 4 adulti più tre bambini più qualche neonato sulle spalle delle mamme… In più si è, meno si spende a testa!
Insomma non c’era nulla in tutto ciò che mi inspirasse fiducia nel salire su uno di quei piki-piki.
Ma in questo caso è Maina il mio rider, perciò mi avvinghio stretta stretta a lui e mi preparo al peggio… Invece sono piacevolmente sorpresa dalla leggera brezza che mi arriva addosso e devo ammettere che con Maina mi sento davvero sicura e in buone mani.
Infatti poco dopo arriviamo quasi a destinazione, manca solo una salita, una discesa, un’altra salita e un’altra discesa in mezzo al nulla, solo infinite distese colore dell’oro del mais ci circondano, l’ondeggiare di colline gialle sovrastate da un limpido cielo azzurro, pace, tanto silenzio e null’altro. Non mi sono mai sentita così in pace, una calma interiore, un senso di armonia col creato mai provato prima.
E, dopo aver parcheggiato la moto in mezzo al nulla, ci incamminiamo tra le spighe alte del mais e 10 m piu’ avanti scorgiamo una capanna di legno e fango che sembra possa crollare da un momento all’altro. Lì ci aspettano due bimbetti, il loro papà e un anziano del villaggio che ci danno il benvenuto offrendoci il chai (the) e dalla porta della capanna sbuca la testa della mamma che ci fa cenno di aspettarla lì fuori.


Dopo pochi minuti (durante i quali Maina mi spiega un po’ la storia della famiglia) arriva la mamma, una signora sorridente ma timidissima, con una bimba in braccio visibilmente disabile. Scopro che la piccola si chiama Mary ed è nata con la spina bifida (malformazione dovuta alla chiusura incompleta di una o più vertebre), ha il problema dell’idrocefalia (accumulo di liquido a livello dei ventricoli celebrali che si dilatano. Causa danni al tessuto celebrale. Il risultato può essere trauma cranico permanente), non muove le gambe e non ha sensibilità in esse, ha sviluppato molte piaghe da decubito e molte ferite profonde a gambe e piedi a causa del terreno disastrato pieno di sassi e erbacce che la feriscono quando prova a muoversi da un punto all’altro strisciando … ma mi innamoro subito di lei per quel sorriso stupendo, genuino e immediato che mi regala.
Capisco all'istante che è una bimba intelligente e sveglia, infatti prende parte alla conversazione in kiswahili tra i genitori e il mio collega.
E ora che si parla kiswahili inizio a comprendere cosa stiamo facendo lì... 



Mary è una dei tanti bimbi disabili che i colleghi dello staff del St.Martin conoscono fin dalla nascita e che periodicamente si reca nei nostri uffici per la fisioterapia. Ora ha circa tre anni (nei villaggi è molto raro sapere con esattezza la data di nascita dei bambini) e ha bisogno di effettuare al più presto due operazioni: una per chiudere le ferite e l’altra per mettere un tubicino per togliere il liquido in eccesso dall’encefalo. Ma quando i colleghi si sono recati a casa sua per avvisare tempestivamente i genitori che era stato trovato un posto in ospedale, hanno trovato una situazione disastrosa che necessitava un intervento immediato: la casa (se così si può chiamare) oltre che piccola e inospitale era molto pericolante e inoltre la pioggia entrava senza trovare nessun ostacolo. Se, come prevedevano i metereologi, El-Nino fosse arrivato da lì a breve, tutto sarebbe crollato lasciando la famiglia senza un tetto e un luogo in cui ripararsi. E così, come da approccio abituale del St.Martin, si è deciso di mobilitare la comunità del posto e chiedere ai vicini di casa, parenti, amici, parrocchiani… di partecipare alla costruzione di una nuova casa. Si sono organizzati due momenti per incontrare tutte queste persone e accordarsi per una giornata di lavoro comunitario ma…nessuno si è mai presentato agli appuntamenti… Maina mi ha spiegato che la comunità in questione fa parte della tribù dei Turkana, gente che in passato è sempre stata abituata a ricevere tutto prima ancora di chiedere (questo purtroppo è il male del vecchio stile di fare Missione…) perciò per loro adesso rimboccarsi le maniche, mettersi assieme e collaborare è qualcosa di molto nuovo e difficile da concepire. Solo all’ultimo tentativo del Programma di Mobilitazione Comunitaria del St.Martin si è riusciti a coinvolgere un numero decente di persone.



Eccoci allora alla data decisa e siamo qui solo in 4: un anziano (Mzee), un padre di famiglia (baba Mary), uno staff del St.Martin e una ‘paparazza’ muzungu (bianca). Passano le mezz’ore e non si vede arrivare nessun altro…Infine Maina decide di iniziare ugualmente lo smantellamento della vecchia abitazione. Mi dice di fare le foto per documentare i vari step ma io mi sento in imbarazzo, inutile, fuori luogo nel mio ruolo improvvisato di reporter. Inoltre sono vestita da ufficio (pantaloni chiari, magliettina viola elegantina, felpa pesantina, giacchetta rosa, scarpette beige) per nulla adeguata alla situazione e soprattutto senza niente da mangiare e bere sotto il sole cocente dell’equatore in questo periodo dell’anno.
Dopo alcuni momenti di esitazione chiedo il permesso di aiutare nel mio piccolo a fare qualcosa di utile e Maina, con un sorriso a 32 denti, mi propone di fare il “trasloco” portando fuori le poche cose appartenenti alla famiglia. Così, messa la macchina fotografica in un luogo sicuro, entro nella casetta 3 m per 1,5 m che fino a quel momento aveva ospitato 9 persone (5 figli-compresa Mary- e i 2 genitori). Mi sento sprofondare. Dentro non c’è praticamente nulla. Gli oggetti si possono contare sulle dita di una mano. Un letto di legno, alcuni vestiti messi alla rinfusa dentro un sacco di iuta, 5 piatti, 4 tazze di ferro, un pettine, un pezzettino di sapone da bucato, un paio di taniche di plastica gialla per raccogliere l’acqua al fiume, una teiera per il chai. La cosa più ingombrante e recente è una sedia a rotelle che il St.Martin ha donato a Mary ma che non sembra essere utilizzata molto spesso.
Il pavimento è in terra battuta, il tetto è un pezzo di lamiera, le pareti sono di fango e legno ormai marcito dall’acqua e dal sole.
Non posso fare a meno di pensare che in Italia per fare un trasloco ci vogliono dei giorni interi e almeno un paio di camion per spostare tutti i mobili, gli utensili, i beni, ma soprattutto gli oggetti inutili e superflui di cui siamo circondati ma che ci sembrano indispensabili e necessari per sopravvivere.
In questo caso, in meno di dieci minuti, la casa è svuotata.
Improvvisamente mi ritrovo con un pezzo di ferro in mano che Maina mi mostra come usare: facendo leva su di esso devo iniziare a togliere uno alla volta i legni che compongono le pareti ma, mi dice, “Stai attenta a non romperli che ci serviranno dopo per costruire la nuova casa”.
Cosaaaa??!?!?! Costruiamo oggi stesso una nuova casa per questa famiglia, ma soprattutto, utilizziamo gli stessi identici materiali che a me sembrano così marci, vecchi e da buttar?!?!??!
Sono senza parole e, forse leggendo la mia sorpresa sul mio volto, Maina mi spiega che questa famiglia è talmente povera da non poter permettersi di comprare del nuovo materiale perciò si userà ciò che abbiamo a disposizione. L’unica fortuna che hanno avuto è che un conoscete ha donato loro una decina di pezzi di lamiera, perciò la nuova casa sarà più protetta e più chiusa rispetto alla precedente.
Man mano che noi due smantelliamo, due fratellini di Mary portano le travi e i legni circa 20 m più in là dove c’è un piccolo spiazzetto per costruire la nuova abitazione. Sono pieni di energia e voglia di aiutare e ci danno una grossa mano dove altre persone della comunità hanno deciso di non partecipare.
Ma ecco che dal sentierino nel mais sbucano due signori piuttosto anziani che sono venuti a collaborare. Io mi chiedo come possano esserci utili altri due Wazee ma vengo subito smentita quando si improvvisano architetti e iniziano a misurare i confini della casa nuova con un pezzo di spago in mancanza del metro.
Io sono affascinata e allo stesso tempo confusa da ciò che sto vivendo: sono sporca di terra, polvere e sudore fin dentro alle mutande; ho una sete e una fame che non riesco più a ignorare; ormai sono le 13.00 e non ho ancora avuto modo di informare Fabio che non tornerò per pranzo (chissà come sarà preoccupato e forse anche arrabbiato!) ma qui il cellulare non prende, non so proprio come raggiungerlo; ogni volta che mi volto verso la piccola Mary seduta sull’erba poco distante da me mi sorride come a volermi trasmettere tutta la sua gratitudine.
Nulla di tutto ciò era pianificato o organizzato e io credo che ci sia lo zampino del Signore che ancora una volta mi ricorda di LASCIARMI SORPRENDERE DALLA BELLEZZA DELL’IMPREVISTO, DELL’INASPETTATO, DELL’INATTESO E DELL’INIMMAGINABILE.
In tutto ciò Mama Mary sembra scomparsa, ma mi accorgo poco dopo che sta arrivando con un sacco pieno di mais/pannocchie sulle spalle: ecco dov’era finita, è questo il compito delle donne qui, devono pensare al cibo per la famiglia e gli ospiti. Perciò si affanna a preparare per tutti noi delle squisite pannocchie arroste, altre bollite e ovviamente l’immancabile chai.



Mentre decido di prendermi una pausa e sedermi in compagnia di Mary e dei fratellini all’ombra del grande albero che ha un ramo nella posizione giusta per appendere due corde fatte da vestiti vecchi che fungono da altalena, arrivano degli amichetti di Mary con la nonna, che dice essere una volontaria del St.Martin che ha deciso di passare a controllare a che punto sono i lavori. Seguono due ragazzi che mi salutano con una stretta di mano (finalmente si vedono dei giovani che possono essere di vero aiuto a Maina!) e un’altra signora della tribù dei Turkana che vuole rendersi utile.
…Con i noti tempi africani, ma alla fine sono arrivati i rinforzi!
Sono le 14.30 e sto sgranocchiando l’ennesima pannocchia arrosta, chiacchiero in Kiswahili coi bimbi e la nonna-volontaria e ho la dolce Mary seduta sulle mie ginocchia, le ho costruito una coroncina di erba e fiori e ora sembra proprio una principessa! Ha conquistato il mio cuore, non so spiegarmi il perché ma so solo che c’è un legame segreto e silenzioso che ci lega e da oggi ci unirà per sempre. È bello incontrare una piccola amica nel bel mezzo del niente color dell’oro.
Il sole è sempre più battente e la mia pelle chiara inizia a sentirne le conseguenze ma non riesco a starmene con le mani in mano e di tanto in tanto esco dal mio rifugio d’ombra e vado ad assistere l’imperterrito Maina che continua a martellare per fissare i chiodi tra lamiera e legno; è determinato: entro sera la casa dev’essere ultimata. I due vigorosi giovani gli sono di grande aiuto e, sotto le direttive dei Wazee, le cose procedono alla grande. Ma la Provvidenza non ha limiti e proprio alle 17.00, quando il sole inizia a tramontare e la stanchezza si fa sentire, ecco un gioioso vociare provenire dal sentierino d’ingresso e con mio grande stupore vedo comparire 5 colleghi del St.Martin di ritorno da una home visit che hanno deciso di venire a vedere come procede la costruzione della casa. Una nuova ventata di allegria e novità ci avvolge e con una nuova carica finiamo il lavoro in men che non si dica: montiamo la porta, creiamo una canaletta attorno alla casa affinché l’eventuale pioggia non entri, e copriamo i buchi con terra e sassi per proteggere l’interno dal freddo della notte e dagli animali della foresta.
Facciamo l’ultima foto di gruppo, salutiamo la famigliola e le 7 persone di buona volontà, abbracciamo Mary e i fratelli, diciamo arrivederci alla mamma che non smette di ringraziarci e dirci “Che Dio vi benedica”, “Oggi siamo stati benedetti dal Signore”, “Le persone del St.Martin sono una benedizione”…
E torniamo a casa arricchiti di un’esperienza senza eguali.



Mi sento scombussolata, felice, esausta, cocente, piena di speranza, carica di vita, colma di gioia, col cuore gonfio di riconoscenza per questa giornata inaspettata; ho voglia di raccontare al mondo intero la bellezza dell’amore incondizionato, riferire cosa possiamo fare se ci crediamo veramente, se uniamo le nostre forze, se collaboriamo rispettandoci gli uni gli altri, ognuno con le proprie possibilità e con i propri talenti.

Il “vero potere” è nel servizio umile ai più piccoli e nel custodire con bontà e tenerezza tutta l’umanità e il creato.
(Papa Francesco, marzo 2013)

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