#11 - 2016.07 - Bambini


Carissimi amici, è da un pochino che non scriviamo ma dopo il nostro rientro in Italia ad Aprile siamo stati sommersi dagli eventi e non abbiamo trovato il tempo per scrivere. Ma la ragione vera è che ancora una volta il Kenya ci ha travolto e abbiamo avuto bisogno di decantare prima di scrivere.
Questa nuova pagina è intitolata “Bambini” e loro saranno i veri protagonisti: storie belle, dure, difficili da capire per noi. Il tema che ci accompagnerá sará “La possibilitá di Scegliere”.
Buona lettura.                                                                                      

Quando scegliere non è concesso

Di recente abbiamo avuto come ospiti una famiglia di amici italiani con la quale abbiamo vissuto tre settimane bellissime e intense, fatte di chiacchierate, risate, condivisioni e scelte quotidiane. Niente di cosí importante, ma comunque scelte. Ad esempio come gestire i bimbi, se portarli nei villaggi vicini a Nyahururu e far loro vivere un’esperienza forte, oppure se lasciarli a casa a giocare e riposare ecc...
Le sere, mentre ci pensavamo, nessuno di noi si era ma fermato a riflettere sul fatto che i nostri figli possono scegliere autonomamente o attraverso di noi, i genitori.
Da qua inizia la storia di un bambino di nome JACK (nome di fantasia). Eravamo nella zona di Ol Moran, area secca, calda, a tratti quasi deserta e dove c’è un intreccio di diverse Tribú (questa è la parola giusta da usare, non etnie, come noi spesso diciamo pensando di addolcirne il significato…): Kikuyu, Kallengin, Pokot, Samburu. Molte lingue, molte usanze e molta povertá. Si vive per lo piú di agricoltura e pastorizia.
E proprio lì, insieme a questa famiglia di amici, a una parte di staff del St. Martin e ad alcune suore di Ol Moran con le quali c’è una bella collaborazione, io (Fabio) e Tommaso ci siamo recati per una esperienza che difficilmente dimenticheremo.
L’obbiettivo del giorno era la visita a cinque famiglie con bambini disabili. Qua peró si vive alla giornata e si prendono gli eventi come vengono. Infatti i giorni precedenti, e pure tutta la notte precedente, aveva piovuto tanto, perció la maggior parte delle “strade” (che non sono altro che piste di terra battuta) era inagibile. Risultato: siamo riusciti a visitare solo due famiglie.
Ma torniamo a Jack. Questo bimbo abita in un villaggio fatto di capanne di fango, in mezzo al nulla piú assoluto, sopra ad una montagna. Per arrivarci abbiamo letteralmente scalato la montagna con il nostro fuori strada grazie ad un autista davvero in gamba. Assistiti da un cugino di Jack che ci dava le indicazioni mostrandoci come riferimenti questo o quell’arbusto, alla fine siamo arrivati a circa 200 metri dalla sua casa, abbiamo parcheggiato l’auto e proseguito a piedi: assolutamente impossibile arrivarci in jeep!
Ci siamo trovati di fronte a qualcosa che ha stupito tutti: non c’erano nient’altro che quattro piccole case di legno e fango, un misero recinto per capre e pecore e questa famiglia, appartenente alla tribú dei Pokot (detto così potrebbe sembrare che queste persone siano povere perché noi siamo abituati a pensare alla ricchezza in base al denaro che si possiede, invece qui la ricchezza dipende da quanti animali hai, e loro ci hanno raccontato di avere un gregge di ben 500 capi di ovini).
Il cugino si è improvvisato traduttore: quasi nessuno di loro infatti parlava Kiswahili. 






Lì abbiamo incontrato Jack. È un bambino disabile, con problemi sia fisici che mentali; LUI NON PUÓ SCEGLIERE. Lui non puó scegliere di camminare, non ci riesce. Non puó scegliere di andare in bagno da solo, non ci riesce. Non puó scegliere di spostarsi all’ombra, non ci riesce. Cosí come pure parlare, o chiedere acqua, oppure semplicemente togliersi la miriade di mosche dalla faccia. Potrei andare avanti con mille altri esempi... Lui, peró, è fortunato. Qualcuno ha scelto per lui. Hanno deciso per lui. I colleghi dello staff del St. Martin e la sua famiglia hanno stabilito che verrá integrato nel centro di bambini disabili della parrocchia di Ol Moran, dove imparerá a reggersi in piedi (forse non riuscirá mai a camminare), a parlare una lingua comprensibile a tutti (il Kiswahili) e dove potrá imparare ad andare in bagno da solo, a chiedere aiuto, e via dicendo.
Per lui qualcuno ha scelto!
Ma per le sue sorelle? Loro (purtroppo) sono sane. Sono nate in quel villaggio e ci resteranno per sempre. Non andranno mai a scuola, non vedranno null’altro che non sia quella montagna, faranno per sempre le mamme e le donne di casa, e per tutta la vita porteranno al pascolo capre e pecore. Lo fanno giá ora e la piú piccola ha solo 6 anni… LORO NON POSSONO SCEGLIERE! Il loro destino è già segnato dal fatto di essere nate lì.

Varie riflessioni su questa esperienza ci hanno accompagnato per alcuni giorni durante le chiacchierate serali.
I nostri figli possono scegliere. Sempre. Nel nostro mondo si puó scegliere. Non è un male, anzi.
Ma permettetemi di andare oltre.
Quelle tre sorelle dal nostro punto di vista non possono scegliere. La loro vita è giá scritta. Perfetto, forse non sarà la cosa migliore per loro, ma fermiamoci un attimo a pensare.
Noi da “bravi bianchi” istintivamente vorremmo correre a prenderle, lavarle, vestirle bene, dare loro un buon piatto di cibo, mandarle a scuola… sì, ma dove? Fuori dal loro villaggio? Queste bimbe non hanno mai visto nulla di diverso da quel posto. Crediamo davvero che siano pronte ad un cambiamento cosí repentino e grande? Io credo di no. Sarebbe solo un inutile trauma. Probabilmente impazzirebbero o entrerebbero in uno stato di depressione. Sia chiaro, parliamo solo di portarle ipoteticamente fuori dal loro villaggio per andare in un paesetto vicino, mica da noi in Europa!

In questi giorni ho fatto spesso questa riflessione. Noi (i bianchi) siamo cresciuti sentendoci in dovere di aiutare gli altri e solo noi sappiamo come farlo. Ma ne siamo sicuri? Sappiamo davvero cosa fare? Non creiamo piú danni che benefici?
Allora ho voluto ascoltarmi e leggere questo anno e mezzo anche rivedendo il periodo in Italia. Sapete, io qui (non senza difficoltá, e chi mi conosce capisce) ho imparato a fermarmi, ascoltare e accettare qualcosa che non è mio. Qui sono e saró sempre un ospite. Non avró il tempo per conoscere tutto, anzi, ma la bellezza di ascoltare e di accettare di non essere i protagonisti dà una forza incredibile. Si cresce, si lascia quella scia di egoismo personale (il voler aiutare a tutti i costi) che ci portiamo dentro.
Mi viene in mente un’immagine di un quadro che ho visto tempo fa: un uomo seduto sulla cima di una montagna. Attorno: il nulla. Ma in quel nulla, per me, ci sono tutte queste persone che ci parlano, ci spiegano e ci chiedono di stare e non di fare, di condividere e non di scegliere per loro.


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