#3 - 2015.03 - La resurrezione degli ultimi


Cari amici, 

Con la fine di gennaio si è concluso anche il nostro corso di kiswahili. E, dopo una settimana di meritato riposo, a febbraio abbiamo iniziato finalmente a lavorare nei progetti del St. Martin e dell’Arche.
Che fatica! Non è uno scherzo… per noi è stato davvero difficile, all’inizio, adeguarci ai ritmi “africani”.
Come già sapete qui il “POLE-POLE” la fa da padrone. Perciò, questo stile si ripresenta anche nel mondo del lavoro. Venendo da un Nord-Est italiano abituato a dei ritmi assurdi e alle corse contro il tempo, dove il fare precede ogni relazione, e trovarsi ora immersi in un mondo dove la priorità è il rapporto umano con le persone e solo in seguito si dedica il tempo rimanente agli obblighi lavorativi, possiamo garantirvi che è un bel salto.





Nel mese di febbraio nei momenti di preghiera comunitari del martedì presso il St. Martin abbiamo riflettuto e condiviso su queste parole di Oscar Romero:

You should know that we do not longer need to preach,
because Christians preach by the example of their own life.” (Oscar Romero)

Come ci hanno insegnato al CUM (il corso pre-partenza fatto a Verona), anche Romero ci ricorda che il compito dei cristiani non è tanto quello di predicare con fiumi di parole, ma piuttosto essere esempio concreto con la propria vita. Anche noi a volte ci sentiamo in dovere di predicare il Vangelo agli altri senza prima metterlo in pratica nella nostra quotidianità. Ad esempio in famiglia facciamo fatica a chiederci scusa, a perdonarci, a dialogare serenamente, a portare pazienza con i figli, a ringraziare l’altro/a e il Padre…… Speriamo però che semplicemente con il nostro essere una famiglia unita ed essere noi stessi, volendoci bene e rispettandoci, possiamo essere esempio di vita cristiana anche per le persone che ci circondano qui.



Vorremo raccontarvi un po' come stanno andando, e come stiamo vivendo, le nostre esperienze lavorative. 

Iniziamo con il Marleen Crafts dove io, Fabio, mi occupo di dare una nuova visione e un nuovo look al negozio ricercando anche dei clienti nuovi.
Le prime due settimane ho chiesto ai responsabili del progetto di poter partecipare alla vita di tutti i workshops (laboratori di candele, pelle, legno, biglietti, carpenteria…); questa richiesta ha creato un po’ di scompiglio perché qui sembra sempre che il “bianco” debba fare solo la parte direzionale (non riusciamo a capire bene il perché…). Ogni giorno i colleghi mi chiedevano se andava tutto bene e se fossi a mio agio. Ovviamente la risposta non poteva che essere positiva anche perché nei vari laboratori ci sono anche i disabili e questo rende il lavoro davvero bello.
Ora sto iniziando il mio effettivo lavoro ma con un occhio vigile ai ritmi e alle necessità di tutte le persone (compresi i disabili che qui vengono chiamati “core members” perché sono il cuore del progetto e senza di loro non esisterebbe l’Arche Kenya) visto che le abitudini sono ben diverse e gli ospiti siamo noi.

A fine febbraio con i colleghi del negozio mi sono recato a Nairobi per acquistare alcuni articoli che poi si rivendono nel “Curio Shop”. Esperienza molto forte e bella fatta di condivisione, ascolto e conoscenza.
Il primo giorno è stato dedicato a fare il giro clienti e le compere al mercato. Quest’ultimo si è rivelato un momento forte: sentirsi straniero non è sempre facile. Essere bianco ed essere trattato da “ignorante” non è di certo semplice da accettare. I prezzi per il muzungu  (il bianco) erano a dir poco gonfiati e se provavo a domandare se quelli erano prezzi fatti apposta per me, i venditori scoppiavano a ridermi in faccia quasi a volermi confermare l’intuizione avuta. Ma il Padre è grande, e in quei momenti, proprio quando non te lo aspetti, ti entra dentro, ti dona una pazienza e una lucidità incredibile e con quelle poche parole di kiswahili che conoscevo, sono riuscito ad aprire le porte del cuore, dialogare con la gente e far capire che anche io sono un loro fratello, bianco, ma un loro fratello.

Il secondo e terzo giorno ho vissuto “La Nairobi africana”. Sì perché questa capitale è divisa tra una parte per bianchi o per i ricchi kenyani, e un’altra parte per la popolazione locale povera. Mi sono messo molto in discussione quei due giorni, e mi sono chiesto: io da che parte vorrei stare? Non ho una risposta perché se decidessi di stare dalla parte dei poveri ho paura che sarebbe una scelta fatta solo per pena e non va bene, ma se scegliessi di stare dalla parte dei ricchi sarebbe ingiustizia! Lascio a “Colui che tutto può” scegliere per me.
Di recente sono andato ad un ritiro per i bimbi dei centri per ragazzi di strada e per le bambine vittime di abusi. Faccio parte di uno dei team spirituali che si occupa di preparare la preghiera per questi ritiri. Questo gruppo segue tutti i momenti dedicati ai bambini. Devo ammettere che credevo di avere tanta Fede…… Credevo, appunto! Vedere questi bambini non del tutto puliti, non proprio fortunati, con poco o niente, avere una Fede così grande, ha messo dentro il mio cuore un grande interrogativo. E io che cristiano sono? O che cristiano penso di essere? Ho voluto non capire per ora. Ma una cosa è certa, di cammino ce n’è da fare, tanto. Non ci si può mai sentire arrivati. Bisogna gioire per le mete raggiunte, bisogna gioire per le scelte prese, bisogna sempre gioire perché si è cristiani e perciò pieni della gioia e grazia di Dio, consapevoli però che la strada da percorrere è ancora lunga.



Io, Ilaria, invece sto lavorando presso l’ufficio PR (Public Relation) del St. Martin con altre tre colleghe e ho principalmente a che fare con i visitatori WITH AND WITHOUT APPOINTMENT. Fondamentalmente consiste nell’accogliere ospiti e visitatori da tutto il mondo e spiegare loro di cosa si occupa il St. Martin portandoli a visitare le varie sedi dei progetti ma anche alcuni centri riabilitativi. Questo periodo iniziale è stato soprattutto di scoperta, conoscenza e approfondimento riguardo al lavoro dei vari progetti e dipartimenti, andando a vedere in prima persona cosa significa avere a che fare con i beneficiari.

La prima esperienza è stata presso una famiglia composta da madre, un bambino di tre anni e mezzo disabile, la sorellina di un anno e due mesi e il padre alcolizzato che da poco, grazie allo staff del St. Martin, ha trovato un lavoro ma che ancora oggi torna a casa la sera ubriaco pronto a picchiare figli e moglie. Sperperando tutti i soldi nell’alcol, non riesce a permettersi di pagare un affitto o comprare una casa, perciò sono costretti a vivere con i nonni paterni.  Mensilmente un membro dello staff del St. Martin si reca dalla famiglia per vedere se ci sono dei miglioramenti e dei cambiamenti in atto. In seguito a questo pomeriggio mi sono resa conto di quanto fortunata sono ad avere un marito che mi aiuta in casa e con i bambini, e un padre premuroso che si occupa a pieno cuore dei figli; le mie colleghe mi hanno confermato che qui in Kenya questa è un’utopia.




Un altro momento davvero significativo è stato affiancare i colleghi del progetto “Addiction and HIV” che si sono recati a un meeting organizzato da due volontari del St. Martin all’interno di una “Happy Church” per sensibilizzare gli alcolizzati a riconoscere il loro problema e a farsi aiutare. È stato utile proiettare il video di una storia reale, dove il protagonista, a causa dell’alcol, perdeva lavoro, amici e famiglia e non voleva ammettere di avere seri problemi con l’alcol. Solo in seguito, dopo aver preso parte ad un gruppo di alcolisti anonimi, è riuscito ad uscire da questo tunnel e pian piano ha ritrovato l’affetto dei suoi cari. Sebbene all’incontro fossero venuti parecchi uomini ubriachi, che parlavano a voce molto alta e che dopo aver detto qualche parola irripetibile abbandonavano la sala, mi ha colpito la decisione di uno di loro di voler cambiare vita. Ha chiesto di essere fotografato per immortalare il giorno del suo cambiamento! Ho avuto la conferma che quando meno te lo aspetti, in silenzio e con molta discrezione il Padre “lavora” nel cuore fragile del prossimo con grande sorpresa di chi gli sta accanto.


Sabato 7 marzo mi sono recata a Mochongoi (un’altra Missione della Diocesi di Padova) dove è in atto da anni un serio conflitto tra tribù.
La tribù che abita nella parte più bassa della Rift Valley, nella savana pura, a fatica riesce a coltivare la terra per la grande aridità. Perciò vive di pastorizia. Non c’è elettricità e manca anche la sicurezza. Da due anni ormai la zona è scenario di scorribande di un’altra tribù, guerriglieri armati fino ai denti che vengono a rubare il bestiame. I primi a scappare sono gli insegnanti e i dottori. La gente si ritrova spesso senza scuole e sanità.
Perciò don Sandro Ferretto e la sua gente hanno pensato di organizzare un momento di mobilitazione delle donne perché possano farsi strumento di pace. Questo in breve quello che è stato detto all’incontro: la pace è possibile solo a partire dalle persone; lo slogan era “Make it Happen!”. Dove c’è una donna c’è la pace. Dove c’è volontà c’è una via d’uscita. Dobbiamo promuovere e mantenere la pace, affrontare le sfide. Bisogna trovare una soluzione a partire da qui e ora.
Sono state invitate due donne mooolto strong: una politica della regione di Laikipia e una originaria di una delle due tribù coinvolte, che hanno cercato di dare una svolta a questa triste vicenda con parole di speranza e coraggio.
Si poteva percepire chiaramente che le donne di quei villaggi stanno soffrendo molto per questa situazione, hanno raccontato di essere costrette a scappare dalle loro case con i bambini e dormire all’aperto perché hanno paura degli spari che arrivano da poco lontano... Io come donna mi sento molto vicina a queste mie sorelle e le affido al Signore nella preghiera.



L’8 marzo invece abbiamo festeggiato le donne nella prigione femminile di Nyahururu, sembra impossibile che le stesse donne che ballavano, cantavano e recitavano, così sorridenti e spensierate di fronte a noi, abbiano commesso delitti anche atroci in passato.
Alcune sono lì perché hanno ucciso, accoltellandoli, i mariti o i compagni; altre si trovano lì per aver rubato; altre ancora per essere scappate di casa (magari perché maltrattate) e accusate di abbandono di minori; altre infine semplicemente per essere state trovate nella foresta a raccogliere legna per far da mangiare ai figli (qui è proibito raccogliere legname o tagliare alberi senza permesso del Governo).
Molte di loro hanno figli piccoli che vengono ancora allattati, perciò anche i bambini sono costretti a vivere dentro quelle quattro tristi mura. Spero che questa Pasqua imminente sia motivo di cambiamento e “risurrezione” anche per queste donne.

Ci viene spontanea una domanda in questa Quaresima (per noi tutta nuova): il Padre manda il suo Figlio per la nostra salvezza, per la salvezza del mondo intero. Ma siamo pronti ad accettare che salverà anche queste donne distrutte da degli errori generati da una vita ingiusta; i guerriglieri che sparano, ammazzano, rubano; gli alcolizzati che picchiano e distruggono le vite dei loro familiari; i coloni bianchi che credono ancora di essere i padroni di questo Paese…? Siamo sicuri di essere pronti? Quaresima è rinuncia, vorremo che quest’anno non fosse per noi una rinuncia di qualcosa (anche perché stiamo già vivendo in modo sobrio) ma piuttosto una rinuncia delle nostre sicurezze, dei nostri punti fissi. L’Africa rivoluziona tutto, rimescola le carte in tavola obbligandoti ad uno sconvolgimento totale. Difficile, forse anche troppo, ma che bello accettare che il Padre lavori liberamente dentro di noi senza porre limiti o paletti!!!



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