#19 - Febbraio 2018 - La missione siamo noi



LA MISSIONE SIAMO NOI
(10 giorni in Kenya, tra missioni e ammissioni)

Bisogna essere matti.

Col senno di poi, siamo stati davvero dei matti. Partire in due famiglie con bambini alla volta del Kenya. Io, Andrea, e Valentina con Caterina e Lucia. Roberto e Alice, con Emmanuele, Maddalena e Francesco. E non, come spesso ho voluto precisare tra il serio e il faceto, per andare in uno dei resort di Briatore, ma in una struttura appartenente alle missioni della Diocesi di Padova. Accolti da un’altra famiglia con bambini, Fabio e Ilaria con Tommaso e Edoardo, missionari fidei donum da oltre tre anni e mezzo. Più matti di noi. A partire per Nyahururu nel 2014 per inserirsi nella missione del St. Martin. Questo, praticamente, è stato come un nuovo campo famiglie: nel 2012 ad Assisi con altre famiglie in cammino abbiamo visto accendersi in Fabio e Ilaria il desiderio di partire; nel 2018 le nostre due famiglie hanno voluto raggiungerli alla volta delle missioni africane. È incredibile come i legami a volte superino il tempo e lo spazio.



Matti. Partire con tutte le tue sicurezze in valigia… e capire che, una volta arrivati, non ti servono proprio a un bel nulla. Lascia in armadio il tuo tablet: ci sono tanti altri passatempi casalinghi, durante il giorno. I bambini giocano in giardino, tirando calci al pallone e cercando i camaleonti tra il filo spinato che circonda le alte mura della casa. Tutto questo mentre tu, a scelta, puoi tagliare la legna, puoi mettere l’acqua sul fuoco, sia per la pasta ma anche e soprattutto per berla il giorno dopo, puoi innaffiare l’orto, puoi preparare la cena, puoi andare a prendere il latte appena munto (da preparare e bollire anch’esso, beninteso!). Puoi, ma anche devi. Altro che tablet, cellulari e tv. O fai questo o non mangi e non bevi.




Matti. Ce ne sono tanti sia alla Casa Effatà che alla Casa Betania! Sono due delle tante realtà che girano intorno alla missione del St. Martin. Ragazzi e ragazze con varie forme di disabilità, fisica, psichica, che vengono accolti dalla comunità dell’Arche Kenya (che è il nome di un progetto internazionale, ideato da Jean Vanier) come fratelli e amorevolmente accompagnati nel riscatto della propria dignità, troppo spesso ancora perduta fin dalla culla a causa di una cultura che vede la malattia come una macchia, un demonio, un qualcosa da rifiutare, evitare o, peggio, ignorare. Nell’Arche, poi, i ragazzi imparano un mestiere, hanno un obiettivo che però non è dettato né dal tempo né dal profitto. E partecipano ai processi decisionali! È una sorta di cooperativa di tipo B, con la differenza che all’Arche c’è più partecipazione, più comunità. Porterò ancora più rispetto di prima, nei confronti di queste realtà di inserimento lavorativo.



Matti. I ragazzi e le ragazze che, accolti e ormai cresciuti, decidono di rimanere al Talitha Kum a fare servizio. A chi? Ma ai bambini malati di HIV, ovvio. Chi non lo farebbe? Chi non si prenderebbe la responsabilità di accudire e far crescere bambini che, se non fossero lì, sarebbero chiusi nel dimenticatoio di una stanza buia e maleodorante di una catapecchia di fango costruita in mezzo al nulla equatoriale poiché rifiutati dalla propria famiglia? Chi non si prenderebbe la responsabilità di far assumere i medicinali che mantengono dormiente il virus HIV, a orari precisi e talmente serrati che se sbagli di dieci minuti il virus potrebbe risvegliarsi e mettere a rischio la vita di questi bambini? Che matti.






Matti. I maestri e le maestre che tutti i giorni si recano al Rehabilitation Centre, al Drop In Centre o al St. Rose ad accompagnare i bambini abbandonati, maltrattati e le bambine abusate e violentate. Matti loro e chi ha raccolto e accolto questi bambini e bambine. Perché la struttura, in confronto alle altre realtà della missione, è veramente basica. Dalle altre parti, nei bagni c’è il water o, mal che vada, una turca. Qui c’è una buca che dà sulla latrina. La cucina è composta da un fuoco di legna e da un pentolone che l’acqua che bolle (senza l’esploratore dentro). E sperare che i babbuini dalla foresta confinante non vengano a razziare quel poco che, donato quotidianamente dalla provvidenza, è sistemato nella precaria dispensa. La struttura è volutamente mantenuta ai minimi livelli. Perché i ragazzi, una volta cresciuti, devono essere reinseriti nella società. Non devono tornare. Non devono avere il desiderio di tornare. Là fuori, il mondo può essere migliore anche grazie a loro. E grazie ai loro insegnanti, questi matti.





Matti. I dipendenti e i volontari del St. Martin, ad organizzare ogni martedì mattina la preghiera comunitaria. Mollare tutto per andare a pregare il tuo Dio. Sì, perché la preghiera comunitaria, così come le celebrazioni eucaristiche comunitarie, che tu sia cattolico, musulmano o protestante sono fatte insieme, espresse a voce alta davanti a tutti, raccolte e deposte sull’altare di un unico Dio che ti ascolta e ti ama incondizionatamente, da quello che sei, da quello che fai, dalla tua forma di espressione religiosa. L’ecumenismo. Allora esiste! Finché ne senti parlare, dal tuo parroco, dal Vescovo, dal Papa… non capisci veramente cos’è. Finché non lo vivi. Quando lo vivi, lo comprendi. E capisci il motivo per cui dà fastidio. E poi la preghiera è l’occasione per confrontarsi con tutta la comunità. Perché il motto del St. Martin è “only through community”, solo attraverso la comunità. Un problema non è mai tuo personale, perché è della comunità, che se ne fa carico per risolverlo. Un risultato non è mai un premio personale, ma una gratificazione della comunità. Un’illuminazione. Per noi che raramente rivolgiamo la parola ai nostri dirimpettai in condominio. Per noi che “facciamo pastorale” per farci belli davanti agli altri. Per noi che facciamo fatica a comunicare tra i gruppi all’interno della stessa parrocchia, figuriamoci poi a camminare insieme alle parrocchie vicine, in nome del nostro Signore. Non abbiamo nemmeno il problema di una Fede differente!




Matti. Fabio e Ilaria, ad essere partiti, dopo aver frequentato i corsi diocesani per diventare missionari fidei donum, i corsi di lingua per imparare il kiswahili, dopo aver lasciato le certezze tra cui casa e lavoro. Partire con due bambini piccoli, di 4 anni uno e di sei mesi l’altro. Guadagnarsi la fiducia dei kenyani, inserirsi in una struttura con modalità di conduzione completamente diverse da quelle europee. Che matti. A tornare dopo quasi quattro anni, con una bambina nel pancione, dopo essersi completamente e perfettamente inseriti nella società di Nyahururu e nelle realtà che gravitano intorno alla missione del St. Martin. Tornare ad una modalità di vita dettata dalla frenesia, dallo stress, dall’obiettivo del profitto, dello status quo.



La nostra decade kenyana non si è esaurita al St. Martin, beninteso. Non sono mancati i safari, a piedi e in fuoristrada, gli animali tra zebre, giraffe e leoni. Tanti i colori, i profumi. Il fango, la terra rossa. Tante le sensazioni, il mercato, le facce, il sentirsi osservato, il sentirsi diverso. Non sono mancati lo stupore per la grandiosità della Natura e dei fenomeni astronomici, le 12 ore di luce e 12 di buio, l’escursione termica di 20 gradi e oltre non appena il sole si spegne sull’equatore. Non sono mancate le birre e soppressa con pan biscotto (portati dall’Italia) allegramente consumati dopo il collegamento via Skype con il gruppo giovani. Non è mancata l’acqua calda, mentre la corrente sì qualche volta è mancata. Invece, non è mai mancato il buon umore. 13 persone a tavola, di cui 7 bambini, sono una bella prova di resistenza, ma soprattutto di comunione.






Si parte per tornare, mi ha detto più volte Fabio. Non parti per abbandonare qualcosa o per fuggire da un possibile fantasma. Parti per tornare, perché la vera missione è qui. È portare nel nostro quotidiano un messaggio di pace, di fraternità e di comunità. È considerare il mio prossimo veramente come me stesso. È ricordarsi che un giorno sono io il San Martino che scende da cavallo a condividere il mantello, ma il giorno dopo posso anche essere il malato che chiede aiuto e mendica attenzione. Nessuno è così ricco da non poter ricevere, nessuno è così povero da non poter donare. La mia missione è l’ammissione che il mio io è allo stesso tempo povero e ricco, malato e sano, bianco e nero. La mia missione è capire che devo liberarmi dei muri costruiti intorno alle mie debolezze ed aprirmi all’amore che mi viene donato in qualsiasi forma dal mio prossimo, dalla comunità.

La nostra missione è ammettere che, a volte, i matti siamo noi. Only through community.
Qui e ora. La missione siamo noi.

Andrea
(Nyahururu - Padova, febbraio 2018)



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